Il blog

Questa è la sezione dedicata al mondo del Verdicchio. Al suo interno troverà una rubrica di approfondimento interamente dedicata alle terre del Verdicchio curata dallo scomparso Prof. Riccardo Ceccarelli, noto storico delle Marche e suo profondo conoscitore grazie al quale, del resto, questo blog non avrebbe mai visto la luce. È proprio per celebrare il suo lavoro che abbiamo deciso di continuare a raccontare, anche attraverso i suoi scritti mai pubblicati finora, quell’ecosistema di tradizioni, persone, ambiente a lui tanto caro e che rende il nostro territorio unico al mondo.

Il vino novello

Il vino novello

Scritto da museosartarelli il 20 Dicembre 2021 in Storia

È il primo prodotto dell’anno vitivinicolo che viene messo in commercio. Lo si può commerciare per legge solo dal 6 novembre. Si ottiene con la macerazione carbonica, dall’uva cioè immessa dentro un serbatoio, chiuso ermeticamente e saturo di anidride carbonica, e lasciata macerare dai sette ai venti giorni in totale assenza di ossigeno, ad una temperatura dai 30 ai 35°. Per essere definito “novello”, un vino deve avere almeno il 30% di quello ottenuto con la macerazione carbonica, il resto 70% può essere quello ricavato con le tecniche classiche, ovviamente dell’anno precedente. Più la percentuale del vino da macerazione carbonica è alta, più il vino è “novello”, cioè è ricco di quei profumi e di quegli aromi contenuti nella polpa e nell’epidermide dell’uva. Una tecnica, senz’altro una scorciatoia, per accontentare la curiosità del consumatore desideroso della primizia. Il vino novello è il trionfo del profumo immediato, ricco, morbido, fruttato, armonico, intenso. Accontenta il desiderio, quel desiderio di frenesia che ci prende di fronte ad un dono: lo vogliamo vedere e sentire subito, nella sua pronta fragranza, nel gioirne immediatamente. È il prodotto che, se da un lato fotografa la nostra voglia dell’avere veloce, dall’altro vuol essere il primo grazie assaporato e percepito alla natura per quanto ci offre. Ai suoi doni ormai siamo abituati, ad ogni stagione comunque essi rappresentano sempre una scoperta, sono una “novità” che la circolarità del tempo ci fa gustare con sensazioni sempre vive mai identiche o snervate. Il vino novello è una sorta di anticipazione forzata ma gustosa ad un tempo, del vino nuovo, di quello che con la fermentazione classica, matura nel silenzio e per il tempo necessario per presentarsi poi in tutta la sua verità strutturale e nei suoi profumi identitari. Gustare il “novello” è godere dei profumi in autunno, gustare il “nuovo” in primavera e oltre, sempre è una piena e completa esultanza.
Quella giusta che dà il vino.

(2 ottobre 2012)

Prof. Riccardo Ceccarelli

Le leggende del Verdicchio

Le leggende del Verdicchio

Scritto da museosartarelli il 4 Marzo 2021 in Storia

Le leggende hanno sempre un certo fascino, fanno galoppare l’immaginazione e la fantasia. La storia, ricostruita su documenti, ci avvicina alla verità con l’indubbio fascino delle “cose” avvenute e vissute. Sul Verdicchio la leggenda fu “costruita” negli anni successivi alla secondo conflitto mondiale. Si attribuì a Vincenzo Maria Cimarelli (1585-1662), storico di Corinaldo, questa frase «lo Verdicchio, vino di solar claritade et virtù eccellentissime», che rimandava al re Alarico re dei Visigoti morto nel 410, che ne avrebbe fatto incetta mentre con il suo esercito si avviava verso Roma. Frase forLe leggende hanno sempre un certo fascino, fanno galoppare l’immaginazione e la fantasia. La storia, ricostruita su documenti, ci avvicina alla verità con l’indubbio fascino delle “cose” avvenute e vissute. Sul Verdicchio la leggenda fu “costruita” negli anni successivi alla secondo conflitto mondiale. Si attribuì a Vincenzo Maria Cimarelli (1585-1662), storico di Corinaldo, questa frase «lo Verdicchio, vino di solar claritade et virtù eccellentissime», che rimandava al re Alarico re dei Visigoti morto nel 410, che ne avrebbe fatto incetta mentre con il suo esercito si avviava verso Roma. Frase fortunata che è frutto di fantasia e pura leggenda: l’espressione e il contesto sono inesistenti nel volume del Cimarelli (Istorie dello Stato di Urbino. Libro terzo dell’origine, e successi di Corinalto, Brescia 1642, capitolo II, pp. 5-6). Un falso storico che alimenta ancora la penna di quanti scrivono di Verdicchio, nonostante da oltre venticinque anni la “citazione” del Cimarelli si sia dimostrata immaginaria. Anche Annibale era stato tirato in ballo: avrebbe curato i suoi cavalli ammalati con Verdicchio e Rosso Conero durante le sue scorrerie per l’Italia contro i Romani (218-216 a.C.). Avrà usato il vino dei luoghi attraversati, senz’altro non Verdicchio o Rosso Conero che così certamente non si chiamavano. A volte siamo più disposti a credere alle leggende che alla storia perché con il mito o la leggenda “andiamo lontano”, viaggiamo con la fantasia, la storia invece ci riporta al concreto, ai fatti, a quanto è avvenuto. Per il nostro Verdicchio più delle leggende è attraente la sua storia perché essa ci parla di uomini e di terra, di nostri antenati che su queste nostre colline hanno intrecciato un secolare rapporto virtuoso, storia che nobilita chi l’ha vissuta e quanti continuano oggi, quasi con ostinazione, sui solchi antichi. Le leggende si perdono in fumosità, la storia ci ancora alla terra, alle nostre colline: per il Verdicchio è l’ancoraggio più forte, più resistente e più vero.

(5 gennaio 2013)

Prof. Riccardo Ceccarelli

La Botte del Vino

La Botte del Vino

Scritto da museosartarelli il 28 Ottobre 2020 in Storia

Quella di Gubbio aveva la capacità, e l’ha ancora – però non la utilizzano più – di 20.124 litri. La chiamano la “Botte Grande dei Canonici”. La si può ammirare nelle duecentesche cantine in via Federico da Montefeltro 1, sotto il Museo Diocesano nel palazzo dei canonici della cattedrale.

Maestosa, imponente, realizzata in loco ai primi del Cinquecento da sapienti falegnami che avevano trovato soluzioni particolari per tanta opera. Nelle altre cantine, nelle nostre cantine, le botti erano ovviamente di dimensioni più ridotte, ma sempre ‘regine’ venerate, specie le più capaci, circondate da attenzione e da preoccupazione. Una manutenzione attenta quando contenevano il vino in ebollizione o in maturazione, ma anche quando erano vuote, ché non prendessero cattivi odori, ché nessun intruso (piccoli animali o altro) vi entrasse da clandestino. E poi una preparazione accurata per ospitarvi il mosto: doveva resistere al suo ‘muoversi’ con una tenuta stagna sicura, senza perdite. Cerchi sempre ben tenuti, meglio se verniciati; doghe ripassate all’esterno con il “sego”, grasso di maiale allo scopo preparato e conservato; pulizia interna con il vino magari leggermente caldo dal “rosciolo”, attraverso il quale una volta rimosso, per togliere le fecce, vi poteva entrare un ragazzo; controllo o raschiatura della patina di tartrato, la cosiddetta “rascia”, ed infine il lento bruciare – dopo aver ben chiuso ogni apertura – di uno stoppino o lembo di stoffa intriso nello zolfo fuso. Un rito antico, secolare, tradizionale. Il contadino, se poteva, scandiva – anno dopo anno – l’uso delle sue botti a seconda della “bontà” di ciascuna, della resa cioè qualitativa del vino. Di quercia stagionata erano fatte, da mastri bottai che assommavano al mestiere una sapienza maturata nei secoli. I moderni contenitori supertecnologici, pur avendo qualità eccezionali, non hanno quel velo di poesia di quelle grandi antiche botti. Non ci vogliamo riportare il vino, ma ricordarle “fa bene” anche al vino di oggi.

(12 luglio 2012) – Riccardo Ceccarelli

Belvedere Ostrense

Scritto da museosartarelli il 5 Ottobre 2019 in Storia

Il Consiglio comunale richiese l’aggiunta di “Ostrense” nel 1862, in quanto si pensava ad una sua origine legata all’Ostra romana. Invece fu un borgo medioevale, alla cui origine c’era un monastero benedettino. I primi documenti risalgono agli inizi del XIII secolo. Fece parte del Contado di Jesi, fino alla sua soppressione nel 1808. I suoi rappresentanti con quelli degli altri castelli, se avevano qualche controversia con la Città di Jesi, si ritrovavano a Moie o ad Osteria di Castelplanio. Incanta oggi per le sue mura rinascimentali, con notevoli architetture del XVIII secolo, quali chiese e palazzi gentilizi. Appena fuori dal suo centro storico, sorge il Santuario della Madonna del Sole, la cui origine risale al 1600 e al cui interno si può ancora ammirare un affresco del 1471 ad opera di Bartolo di Andrea da Jesi. Dal 1989 è operativo il Museo Internazionale dell’Immagine Postale.

Riccardo Ceccarelli

Arcevia, la “Perla dei Monti”

Scritto da museosartarelli il 16 Settembre 2019 in Storia

“La Perla dei Monti”, proprio così fu chiamata la medievale rocca contrada Arcevia, che poi ottenne il titolo di città nel 1817. Le prime notizie risalgono agli anni attorno al Mille. Il suo territorio è particolarmente ricco di testimonianze archeologiche, dal Paleolitico all’Età del Bronzo e all’Età del Ferro, fino all’epoca romana. In età comunale e ai tempi delle signorie dei Chiavelli, di Braccio da Montone e di Francesco Sforza, Arcevia fu nota come rocca inespugnabile. È una città d’arte, il monumento più importante è la Collegiata di San Medardo, costruita nel XVII secolo su un edificio medievale e che conserva ancora oggi notevoli opere d’arte, come i polittici di Luca Signorelli, ceramiche dei Della Robbia fino alle tele di Ercole Ramazzani. Il Palazzo comunale è del XIII secolo con la torre civica alta 36 metri. La chiesa di San Francesco della seconda metà del 1200 è stata poi ricostruita in stile rococò nel 1750. Il territorio di Arcevia è costellato da 9 castelli-frazioni di origine medioevale e di importanza notevole per storia e valenza architettoniche: Avacelli, Castiglioni, Caudino, Montale, Nidastore, Piticchio, Palazzo e San Pietro in Musio. Pur avendo conosciuto in questi ultimi decenni un forte decremento demografico, Arcevia conserva tutto il fascino, non solo per il suo passato, ma anche per il presente che, consapevole della sua antica nobiltà, intende coniugare con una sempre più avvertita qualità di vita.

Riccardo Ceccarelli

Serra de’ Conti

Scritto da museosartarelli il 10 Agosto 2019 in Storia

È posizionata sulle alture della valle del Misa. All’origine della sua storia ci sono l’istituzione della Pieve di Santa Lucia (ora distrutta) ad opera dei monaci benedettini provenienti dall’abbazia di Santa Croce di Sassoferrato. La tradizione vuole che proprio il Beato Gherardo (1280-1367), un monaco dell’abbazia di Santa Croce, vi esercitasse il suo ministero diventandone, per santità riconosciuta dal popolo e dalla Chiesa, il protettore. La costruzione di un castello, con le sue possenti mura (poi rimaneggiate) è databile tra il XII e il XIII secolo.

Ai nobili scesi dall’area preappenninica longobarda appartenevano i conti che governarono in nome dell’impero il primitivo castello. Ha mantenuto l’impianto urbanistico medioevale. Importanti sono per architetture e decorazioni le sue chiese ed edifici pubblici.

Per un breve periodo fece parte del Contado di Jesi partecipando al Pallio di San Floriano  fino al 1363. Vi nacque il celebre umanista Baldo Martorello (1420/27-1475), precettore di grammatica dei figli di Francesco Sforza.

Di notevole interesse è il Museo delle Arti Monastiche con oggetti, utensili e arredi del Monastero di Santa Maria Maddalena dalla fine del 1500 fino ai primi decenni del 1900.

Riccardo Ceccarelli

L’antico splendore di Montecarotto

L’antico splendore di Montecarotto

Scritto da museosartarelli il 15 Luglio 2019 in Storia

Il suo nome Mons arcis ruptae ricorda con tutta probabilità un antico feudatario del luogo o qualche costruzione molto più antica. A cavallo tra le valli dell’Esino e del Misa, attorno ad essa sorse un agglomerato rurale che nel corso dei secoli XI-XII acquistò progressivamente consistenza. Trasformatosi in castello, entrò a far parte del Contado di Jesi nel 1200 divenendo insieme a “Massaccio” (Cupramontana) uno dei due castelli più importanti dell’intero territorio di Jesi.

Proprietà del vescovo di Jesi, egli lo cedette alla città insieme a Poggio San Marcello. Nel 1509 fu completata la ricostruzione della monumentale cinta muraria attribuita a Giacomino di Albertino da Cremona. Nel 1903 fu abbattuta la porta orientale, la porta principale del castello, ottenendo così l’ampia piazza che si apre davanti al teatro comunale del 1877.

La testimonianza del suo splendore antico si ha nella chiesa-collegiata di Santa Maria Annunziata che, secondo gli studiosi, “per le suppellettili d’argento, legni dorati e opere d’arte che vanno dal XVI al XX secolo, ne fanno una delle chiese più ricche e degne della Vallesina”.

Fu famosa per ben tre secoli, dal 1500 al 1800, la Scuola Organaria di Montecarotto, i cui organi sono stati e sono ancora strumenti musicali di gran valore. In questi secoli ha vissuto nella cultura e nell’arte momenti di grande splendore. Negli ultimi decenni, nonostante il forte decremento demografico che ha caratterizzato l’intero comune, ha provato a tenere fede alla sua tradizione.

Riccardo Ceccarelli

San Paolo di Jesi

San Paolo di Jesi

Scritto da museosartarelli il 20 Giugno 2019 in Storia

I suoi amministratori vollero che si aggiungesse “di Jesi” nel 1863, sia per distinguere il loro paese da altre località con lo stesso nome, sia per ufficializzare nel nuovo stato unitario quello che per secoli, almeno fino al Millesettecento, nello Stato Pontificio, era stata la dizione consueta. Sorto come agglomerato attorno ad uno ormai scomparso monastero di San Paolo, nelle vicinanze dell’attuale paese, divenne nel corso del XIII secolo un piccolo centro fortificato (castrum) ai confini tra il contado di Jesi e quello di Osimo. Ha fatto sempre parte del contado di Jesi, come comunità autonoma, ma avendo pur sempre stretti rapporti con la città, in particolar modo per le proprietà terriere e per prodotti quali grano e vino. Durante il regime fascista fu incorporato a Staffolo costituendo una sola unità amministrativa. Caratteristica del suo territorio sono alcuni piccoli vulcani di fango, “bagni” o “bollitori”, vale a dire emissioni di fango bollente che acquistano la forma di un piccolo cono. Un piccolissimo paese con una popolazione quasi sempre al di sotto dei mille abitanti e che ha conservato il suo orgoglio e la sua tenacia nel lavoro.

Riccardo Ceccarelli

Staffolo, pieno di molto vino

Staffolo, pieno di molto vino

Scritto da museosartarelli il 16 Maggio 2019 in Storia

Lo trovarono così nel marzo del 1354 i soldati di Montreal d’Albarno, detto Fra Moriale, durante il saccheggio del castello di Staffolo, “pieno di molto vino”, stando a quanto scrive il cronista fiorentino Matteo Villlani (1295-1362) nelle sue Storie. Alcuni umanisti del Cinquecento lo vollero indebitamente legare alle origini greche, da “staphilé”, grappolo d’uva, creandovi sopra alcune leggende. La storia ci dice invece che Staffolo, fu luogo fortificato in zona di confine al tempo della dominazione longobarda, come lascia intendere l’origine del nome da “staffal”, palo di confine, cippo, indicando il territorio di confine tra il ducato longobardo di Spoleto e la Pentapoli bizantina. La prima citazione di Staffolo si ha nel 1150. Nel corso del XIII secolo fu libero comune, non fu mai a differenza dei castelli dei dintorni, se non sporadicamente, assoggettato a Jesi. Ebbe propri statuti redatti tra il 1544 e il 1546; fu sempre sotto la giurisdizione di Osimo. Di grande interesse sono la cinta muraria con torrione del Quattrocento e il tessuto urbano medioevale, prevalentemente restaurato. La chiesa parrocchiale ha il portale romanico e contiene il Polittico di S. Egidio abate del Maestro di Staffolo, capolavoro del XV secolo. Notevoli sono le architetture civili dei secoli XVI-XVII. La sua economia, prevalentemente agricola, come nei secoli passati, ha nella viticoltura la sua espressione più importante.

Riccardo Ceccarelli

Castelbellino: il primo del Contado

Castelbellino: il primo del Contado

Scritto da museosartarelli il 18 Aprile 2019 in Storia

Si chiamava Morro Panicale, Castelbellino, quando il conte Trasmondo di Morro nel 1194 fece atto di soggezione alla città di Jesi. Allora il suo territorio comprendeva quello attuale di Castelbellino, di Monte Roberto e di Maiolati. Fu il primo dei sedici castelli che nel corso del 1300 si sottomisero a Jesi o furono da essa conquistati, formando così il contado di Jesi, la quale ne esercitò pieno potere nell’ambito dello Stato Pontificio fino al 1808. Fu chiamato “Castelghibellino” e poi Castelbellino, per aver dato ospitalità nel sedicesimo secolo, diventandone per qualche tempo loro roccaforte, ai ghibellini cacciati da Jesi. Notevolmente importanti alcuni reperti ceramici di origine greca rivenuti in tombe del VI secolo a.C. a Pianello di Castelbellino che testimoniano, già allora, un flusso commerciale lungo il fiume con le regioni centrali della penisola. È il primo castello che si incontra, dopo Jesi, a sinistra dell’Esino; lungo i tornanti per arrivarvi numerosi sono gli olivi secolari, quali sculture viventi, e i vigneti che narrano di un territorio ricco, un tempo come oggi, di olio e vino. Il centro storico ha conosciuto un forte calo demografico, si è invece sviluppata molto la sua frazione di Stazione con provenienze da Ancona e paesi limitrofi, incremento favorito dalle vie di comunicazione (ferrovia e strada statale) per i vicini insediamenti industriali e artigianali.

Riccardo Ceccarelli